Storia del tempo: dal “carpe diem” alla civiltà dell’evasione

Un viaggio attarverso i classici

In principio c’era l’eternità, e le brevi vite degli esseri umani la illuminavano come fuochi d’artificio belli ma effimeri.
Poi l’uomo, con il suo desiderio di capire e catalogare ogni aspetto del reale, ha iniziato a misurare il mondo, quella parentesi insignificante che si trovava ad abitare, e ha dato origine al concetto di tempo. Dopo averlo inventato, l'uomo si è trovato a dover definire questo nuovo strumento: il tempo finisce, e allora deve essere diverso da quell’eternità che contiene tutto. Potremmo forse considerarlo una “copia difettosa” dell'eternità, un figlio ribelle che a differenza della madre è “κινητόν” (mobile).
Poi, se non riusciamo nemmeno a immaginare l'eternità, il tempo è invece un’esperienza che possiamo percepire con i nostri sensi e che possiamo addirittura misurare con un'altra nostra invenzione: i numeri. 

Da Platone...

Un uomo curioso come Platone allora azzarda l'ipotesi che il nostro tempo sia solo un'immagine aperta (“εἰκόνα” - Platone, ‘Timeo’, 37) dell'eternità, qualcosa che le somiglia e la imita, insomma, il corrispondente terreno di un'idea più grande di noi, delle nostre menti e dei nostri numeri. Avendo elaborata questa definizione e soddisfatta questa prima domanda, l'uomo può così continuare la sua vita con la consapevolezza che essa è solo una frammento nel poema dell'universo, che finirà con la stessa mancanza di preavviso con cui è iniziata. 

Ecco, nell'istante in cui è diventato cosciente del fatto che la sua preziosa esistenza giungerà a un termine e che il tempo lo incalza come un creditore, l'uomo si è trovato di fronte a un nuovo dubbio: come condurre al meglio una vita piena sapendo che questa può finire da un momento all'altro?
La risposta che propongono gli antichi è la seguente: accettiamo il nostro destino e "vivamus". 

... A Lucrezio

La filosofia allora torna in aiuto all'essere umano per accettare questi concetti difficili da accogliere, come il fatto che "nec prorsum vita ducendo hilum tempore de mortis” (‘prolungando la vita non sottraiamo qualcosa al tempo della morte’ - Lucrezio, ‘De rerum natura’, III, 1087); questa consapevolezza è per l'uomo, abituato a poter modificare tutto con il suo tocco,  un pugno nello stomaco. Eppure, accettare la propria sorte sembra essere un'ottima soluzione, come se fosse lo stadio finale di un lutto che affligge tutta l'umanità. 

Dobbiamo allora riconoscere che "scire nefas” (“è negato sapere” - Orazio, ‘Odi’, I, 11) quando questa vita avrà fine, e, piuttosto che batterci il petto e cercare di allungare i giorni che abbiamo a disposizione, dovremmo agire sull'unica area sulla quale ci è permesso di incidere, ovvero la qualità della vita.
Avendo quindi concordato sul "carpe diem”, si apre una piccola diatriba su come bisognerebbe “carpere” questo attimo. 
Gli epicurei presentano uno stile di vita volto all'accumulo dei piaceri e delle esperienze, dell’amare e del bere senza pensare al domani, dando sempre massima importanza a ciò che rende la vita piacevole, senza eccessi, per poter poi dire di aver vissuto bene.

Alla ricerca della saggezza

E allora ritroviamo il costante pensiero della "mors aeterna” nei brindisi nei mosaici delle sale da pranzo, e persino nelle parole di personaggi che non comprendono appieno la retorica epicurea, come Trimalchione, perché alla fine la morte fa da livella ed è l'unica cosa che ci accomuna tutti e ci rende “conservi” del suo avvicinarsi, annullando qualsiasi differenza. 
Differente è l'impostazione stoica, che vede nella vita umana un periodo da dedicare a quell'antico e nobile obiettivo che è la ricerca della saggezza. Ogni sforzo e ogni secondo dovrebbero essere tesi verso di essa; si dovrebbe allenare la mente come si allenerebbe il corpo per arrivare a toccare terra senza piegare le gambe, allungandosi verso il pavimento un poco alla volta e con pazienza.
Raggiungere la sapienza non è tanto un’aspirazione personale quanto il desiderio di aprire la strada e guidare gli altri, e diventare così il capocordata dell'umanità verso quell’atarassia che tanto desidera Seneca, perché chi raggiunge l’atarassia ottiene il migliore dei premi: la fine delle preoccupazioni, e non tanto quelle preoccupazioni mondane e inutili, ma il vero e proprio superamento di quella paura del tempo che fugge e della morte incombente che ci attanaglia. 

Da un lato quindi abbiamo l’inseguimento del piacere per riempire ogni istante e per non temere di non aver fatto abbastanza, e dall'altro il raggiungimento della “tranquillitas animi”,  uno stato di totale accettazione del nostro destino mortale che ci permetterà di godere appieno di ogni istante. 

Cosa significa vivere?

Ci portiamo dietro quest'ansia da sempre, e adesso siamo riusciti ad aggiungervi un’ulteriore preoccupazione che ci viene direttamente dalla nostra lingua: quella piccola ma abissale differenza tra "vixit" e “fuit” (Seneca, ‘De brevitate vitae’, 9).

Questo pensiero miete vittime fin dagli albori della filosofia e oggi è diventato quel pungolo che ci spinge a provare ogni esperienza disponibile, a mollare la stabilità per lasciarci guidare dai nostri desideri, a lasciare il lavoro per girare il mondo, sperando di aver fatto la scelta giusta, di meritarci il tatuaggio “carpe diem”. E così non siamo tanto diversi dalla voce di Petronio e dalla rubiconda brigata alla casa di Trimalcione: come loro affoghiamo nel vino, nel cibo e nei soldi la nostra paura della morte, dimenticando quella santa e giusta misura che permetteva agli epicurei di non perdersi nelle loro passioni e di riempire il loro tempo invece di sprecarlo.

Loro, dalla profondità della loro saggezza, potevano dire di aver vissuto, mentre è probabile che noi, facendo così, stiamo solo esistendo.
Un modo di vivere veramente allora potrebbe essere lasciare un segno, una boa che spicchi con il suo colore anche in mezzo al mare in tempesta, un albero che resista al passaggio di quella cavalletta devastatrice che è il tempo. Ed ecco che l'uomo, con la sua arte, inizia a ergere monumenti di pietra o di parole, salvando quante più idee e opere possibili dall’annegare nell'eternità; ma anche così si ritrova a pensare al futuro e al passato, sognando la gloria e temendo l'oblio.

L’essere umano quindi si ingegna, e non potendo fare lo sgambetto al tempo, tenta di imbrigliarlo, di trovare un metodo per educare i suoi fratelli a questa battaglia. Ci si dedica così alle generazioni future, ma con moderazione perché il futuro è un argomento spinoso: contiene tante cose belle ma anche la morte. Quando questa “meditatio” si avvicina pericolosamente all'idea angosciante della fine, occorre richiamarsi all'ordine e ricordare che, in fondo, il tempo è qualcosa che "οὐκ ἔχει”, che non possediamo, e perché allora dobbiamo lasciarci tiranneggiare da qualcosa che non ci appartiene? 

Se ci proiettiamo troppo verso il futuro cadiamo di nuovo nell'illusione di poter allungare il nostro tempo, e usciamo dalla nostra area di competenza, arrivando nella zona che orbita attorno all'eternità incomprensibile. Il presente deve quindi essere il nostro centro, il tempo in cui possiamo arricchire la nostra mente o fare nuove esperienze, il presente che tutti accomuna nel nostro essere umani mortali (“το παρόν πἆσιν ἴσον” - Marco Aurelio, ‘Pensieri a sé stesso’, II, 14); e proprio per queste ragioni dobbiamo vivere a pieno e non perdere con facilità il tempo che ci è donato. 

Dovrebbe rassicurare l'idea che, nella nostra piccolezza davanti alla morte e all'eternità che ne consegue, noi possediamo un pezzo di quel tempo e abbiamo il controllo su di esso.
Certo, poi diventerà passato e futuro allo stesso tempo, ma per ora è presente, un piccolo dono che siamo liberi di manipolare per creare una vita piena o saggia, o entrambe. 

Ricordo di aver letto da qualche parte che gli dei ci invidiano proprio perché ogni nostro istante potrebbe essere l'ultimo e ciò avrebbe un valore immenso rispetto alla loro monotona eternità.
Forse gli antichi lo avevano capito nel profondo e per questo si sforzavano tanto per insegnare agli altri ad abbracciare il tempo e la sua intrinseca mortalità, per questo spendevano inchiostro e pergamene per aprire gli occhi ai loro fratelli: per incoraggiarli ad accettare che tutto ha una fine, soprattutto noi. Ognuno ha tentato di dare un contributo: la letteratura e la pittura hanno immortalato l'uomo e la loro esistenza stessa prova che c'è un modo per sconfiggere il tempo che “fugge e non s'arresta una hora”, come scriveva Petrarca.

Cosa abbiamo dunque capito di questo ‘assaggio’ di eternità?
Che vogliamo viaggiare nel tempo.
Accanto a questa “invida aetas” (“tempo invidioso”), noi ci dimostriamo altrettanto assetati di vita (“sitis aequa tenet vitae") e nella nostra voracità perdiamo di vista qualunque insegnamento stoico o epicureo, precipitiamo di nuovo nell'ansia di vivere e, non potendo allungare la nostra vita,  invece di goderci il presente , rimpiangiamo il passato e sogniamo il futuro.
Non abbiamo imparato niente, e ognuno di questi autori ha parlato al vento.

Invece di abbracciare la consapevolezza che possiamo agire solo sulla qualità della nostra vita (come già facciamo in ogni modo e ambito con sempre nuove invenzioni che spesso invece ci portano a sprecare il nostro tempo; basti pensare ai social), noi abbiamo iniziato a immaginare altre linee temporali, altri universi paralleli, e il cinema - se è vero che riflette i nostri sogni - lo mostra chiaramente, con il recente fiorire di storie incentrate sul viaggio nel passato per poterlo cambiare.

Siamo terrorizzati dal tempo perso, dagli errori fatti, dagli anni che si susseguono come il ticchettare di un orologio che prima o poi si trasformerà nella bocca vorace piena di denti della morte.
La nostra soluzione non è la “meditatio”,  ma l'evasione totale, il rifugiarsi nell'idea che forse in un altro universo stiamo vivendo una vita ideale o siamo riusciti a rimediare ai nostri errori. O fuggiamo verso una aldilà religioso che promette il possesso dell'eternità post-mortem, oppure verso un futuro di vita prolungato dalla scienza, o anche soltanto verso la fantasia di poter recuperare tutto quel “χρόνος” (‘tempo’) che non ci appartiene e che non possiamo possedere.

Gli antichi erano la civiltà del presente, ma noi vogliamo essere quella del futuro, in un atto di "ὕβρις”, di tracotanza, che ci viene rinfacciato ogni volta che arriva la morte, e torna l'eternità. 

S. A.