Una società piuttosto primitiva

Sfumature discriminatorie nella vita di tutti i giorni 

L’uomo è senza dubbio uno degli animali più interessanti da osservare e comprendere: si tratta del mammifero più diffuso sulla Terra, quello che si considera il più intelligente e industrioso, l’unico che ha raggiunto una complessità tanto grande in ogni ambito della sua vita. Tuttavia, nonostante la sua incredibile intelligenza, è anche l’unico caso in cui una metà della popolazione della specie discrimina, fa violenza, sminuisce e riguarda come oggetto l’altra metà. 

A questo curioso fenomeno endemico della specie umana si fa riferimento maggiormente come “discriminazione di genere”, formula con cui si vuole intendere l’apparato di comportamenti, atteggiamenti, pregiudizi e azioni concrete e violente che hanno il loro risultato nell’impedire una parità tra i generi maschile e femminile, dove la parte offesa è il secondo (questo per gran parte delle enciclopedie). Il fenomeno, o se vogliamo più correttamente la tragedia, è conosciuto e considerato già da lunghissimo tempo, riguardando la società umana essenzialmente dalla sua nascita. Oggigiorno, nella nostra realtà così civile e democratica, parrebbe che finalmente se ne parli a dovere; interessante, tuttavia, che nonostante se ne parli a dovere, non si concretizzi, ma nemmeno si intravveda all’orizzonte, la parità tra i generi.

Consideriamo infatti come se ne parla: avviene un delitto, frutto della considerazione della donna derivante dalla discriminazione di genere, e l’opinione pubblica si indigna, parla dell’”ennesimo caso di femminicidio”, si rimane giustamente orripilati di fronte alle statistiche di crimini presentate dai telegiornali e dai giornali, si invoca la punizione esemplare per i criminali, la politica strumentalizza l’accaduto per portare avanti la propria campagna a favore o contro uno specifico provvedimento… ma resta nella coscienza collettiva un problema d’altri, che non riguarda “noi brave persone”, qualcosa di cui si deve in qualche modo occupare il governo. Senza contare poi quanti, negando del tutto l’esistenza di tale violenta discriminazione, affermano che “non è per niente così grave la condizione delle donne nel nostro Paese”, che, nel caso di violenze di natura sessuale, le donne “vanno a cercarsela”, o ancora che si tratta di un fenomeno favorito dall’emarginazione, diffuso tra chi “non conosce la nostra costituzione” e che “il patriarcato come fenomeno giuridico è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975”. Tralasciando il polverone politico e mediatico che affermazioni di questo genere causano, soprattutto quando dichiarate da cariche pubbliche, si potrebbe verificarne la falsità basandosi semplicemente su qualche osservazione di qualsiasi contesto, dalla famiglia privata al mondo del lavoro, della nostra società. Ma ancor di più basterebbe considerare l’esperienza quotidiana di ogni persona.

È inquietante che atteggiamenti evidentemente discriminatori siano percepiti come normali e gravi solo, ma non  sempre, in un secondo momento o decontestualizzati. Si pensi, ad esempio, al signore di mezz’età che da del “tu” alla segretaria più giovane di qualsiasi ufficio pubblico visiti, oppure al fatto che sia abituale che una donna si debba vestire in una determinata maniera per evitare di attirare attenzioni indesiderate. 

Scivolando ancor di più nel quotidiano, soprattutto delle generazioni Z e successive, si veda l’emulazione della cultura più tipicamente malavitosa (di tradizione americana), veicolata anche da alcuni autori di musica underground, che porta a un’interazione tra ragazzi e ragazze improntata quanto mai all’oggettificazione di queste ultime, ma accettata in parte anche come convenzione sociale (“lo fanno tutti, quindi è giusto così”).

D’altra parte, anche la più “tradizionale” considerazione della donna quale “oggetto di venerazione da proteggere” non permette di vedere la persona come soggetto e, quindi, di raggiungere una condizione di parità tra i sessi. Allo stesso modo non permettono tale parità le rappresentazioni che, come reazione a questa concezione idealizzata in tempi recenti, sono sempre più frequenti in serie televisive e libri di donne che si “emanciperebbero” incarnando precisamente i comportamenti e i modelli maschili. 

Sarebbero molti gli esempi possibili di discriminazione e violenza, tutti, è necessario ribadire, di situazioni considerate normali. Ci si limiti tuttavia ad esaminarne un ultimo, ossia il grandissimo capitolo dei cosiddetti “standard di bellezza”, che la società impone certamente a tutti i suoi componenti, ma in modo particolare alla componente femminile, e che sono dati per scontati.

Da questo fertile suolo di tossicità germogliano poi tutti quegli atteggiamenti molesti e pericolosi che culminano tragicamente nei crimini che sono per lo più l’unica espressione del problema che viene notata. Ma che qualcuno si senta autorizzato a perpetrare uno stupro o un femminicidio, come innumerevoli studi psicologici e sociologici dimostrano, non dipende dal fatto che quell’individuo sia squilibrato oppure un’anomalia, ma in misura di gran lunga maggiore dal fatto che si senta in pieno diritto di usare un altro essere umano, che per lui risulta di fatto oggetto, come gli pare.

È dunque evidente che, per far fronte a un’emergenza di tale portata, è necessario cambiare ciò che è notoriamente difficile da cambiare: il modo di pensare e di vedere l’altro di un’intera società. Tale cambiamento, che, da quanto si evince dagli aspetti del problema sopra presentati, è qualcosa da verificarsi nel modo di vivere di noi singole persone,  non può però prescindere da una comprensione profonda di ciò che bisogna cambiare. Pertanto non è sufficiente biasimare i criminali e parlare di una grave piaga sociale senza per lo più capire cosa una piaga sociale sia, ma restringere almeno la prospettiva alla propria vita sociale.

Sarebbe estremamente utile, da questo punto di vista, che si venisse indirizzati a una tale forma mentis fin da quegli ambienti che più di tutti formano e riempiono la nostra vita, quali la scuola e, in misura forse minore ma in ogni caso importante, il lavoro. Quello che in questi ambienti, soprattutto a scuola, non si fa ancora è parlare della sopraccitata piaga sociale dal punto di vista della nostra esperienza quotidiana: è senza dubbio utile e importante conoscere le statistiche sui casi di femminicidio, ma è ancora più utile comprendere quante volte nella nostra vita abbiamo visto un caso di discriminazione o quanti ne potremmo incontrare in futuro o vivere in prima persona, da entrambe le parti.

Inoltre, come per tutte le sensibilizzazioni promosse dall’ambiente scolastico italiano, bisogna accertarsi di parlare di esempi del fenomeno attuali e comprensibili ai ragazzi (qui usato per indicare tutti i generi).

In quest’ottica, iniziative come il “minuto di rumore” o le varie manifestazioni pubbliche in occasione del 25 novembre, giornata nazionale contro la violenza sulle donne, parrebbero insufficienti. Non si tratta certamente di iniziative inutili, anzi sono essenziali in una prima fase di sensibilizzazione per fare rumorosamente presente a tutti gli strati della società di guardarsi attorno e di notare il problema della discriminazione di genere. Forse, tuttavia, in un’auspicabile e più profonda fase successiva dell’abolizione di tale discriminazione, non bastano. 

È anche in certo qual modo avvilente che a occuparsi di ascolto e assistenza per vittime di violenze familiari, psicologiche e fisiche, siano soprattutto organizzazioni private, che possono fornire una rete di supporto insufficiente ai problemi da affrontare e che, allo stesso tempo, sono anche le principali promotrici di sensibilizzazione verso la catastrofe.

Si aggiunga poi una rapida considerazione sul comportamento dell’ambiente politico: la discriminazione di genere non è un problema marginale o che affligge solo una porzione di società e combatterla, pertanto, non può essere prerogativa di un movimento politico. La catastrofe sociale porta danno a tutti i membri della collettività, sia che votino a destra sia che votino a sinistra, e dunque non ne è motivata la strumentalizzazione a fini della ricerca di consensi. 

Per ricordarci della nostra umanità dunque e per interrompere la violenza che perpetriamo contro una metà di essa è indispensabile iniziare un cambiamento da noi stessi e dal nostro modo di vivere. Potremmo in tale ottica fare un’operazione di kantiana memoria: possiamo dunque considerare, quando compiamo qualsiasi azione, in che modo ci comporteremmo o reagiremmo se ci trovassimo dalla parte di chi subisce il nostro agire.

Riccardo Dalla Mana

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