Guardare in faccia il male

Diario del viaggio della memoria (Febbraio 2024)

La Risiera di San Sabba (Trieste), campo di concentramento e detenzione dal 1943 al 1945, è separata dal mondo esterno da un muro alto, grigio, oltre il quale si intravedono i rami di alcuni alberi a ricordare che c’è qualcosa al di là di tutto questo. Qualche gabbiano sorvola la zona, non passa sopra la piazza ma attorno, come se non avesse il coraggio di volare in quell’aria ancora infetta. Gli uccelli hanno un istinto per queste cose: evitano quasi sempre i luoghi di morte.

Mi chiedo cosa si provasse  a vivere là dentro e a sentire il loro richiamo, magari immaginando un mare che ormai sembrava inesistente e sconosciuto dopo tanti giorni dello stesso angosciante panorama; si poteva ancora  sognare di avere delle ali e unirsi alla loro libertà.

Un percorso nella risiera

La piazza centrale è stata spianata in unica colata di cemento che è un tutt’uno con il muro, e in fondo c’è il monumento: un insieme di radici metalliche che spunta dal terreno e si allunga verso il cielo.

C’è poi un edificio che da fuori appare come un normale condominio, ma dentro è un’unica sala che sembra grande quanto una cattedrale perché  vuota, ad eccezione delle enormi travi di legno, che sembrano tenerla in piedi come uno scheletro o una ragnatela solida e scura.

Dalle finestre più alte si sentono i piccioni, gli unici abitanti del posto oltre agli addetti al museo, e il loro tubare è l’unico suono che riempie l’aria mattutina.

Sono loro i guardiani di quel cimitero, vegliano sulle strutture per assicurarsi che non crollino, che non scompaiano, e portano nel becco il tenue ma costante lamento dei morti, un suono basso ma che disturberebbe anche il silenzio di un indifferente.

C’è poi un altro edificio, simile all’altro esternamente, con all’interno le celle. Queste sono troppo piccole. 

Sulle travi che reggono il soffitto sono avvolti rosari, simili a edere rampicanti di ogni colore, sono attaccate icone di Santi e Madonne, come se ogni cella fosse la lapide di un parente che tutti abbiamo amato senza aver mai conosciuto veramente. 

Intrecciati alle grate delle finestre crescono vari fiori, alcuni sono ripiegati su sé stessi, col gambo spezzato e i petali rinsecchiti, ma nessuno li toglie o li cambia. Si può solo aggiungere, lasciare un pezzo di sé, in un’unica, lunga celebrazione funebre che riunisce passanti e turisti di ogni lingua e provenienza.

C’è un museo che non ricordavo esserci nella mia prima visita qui. Ci sono video su ogni possibile elemento di ciò che è stato e di ciò che è successo in questo luogo. Ci sono dei disegni a carboncino fatti da un sopravvissuto, dove le figure che dovrebbero essere umane sembrano delle ombre scheletriche. C’è un frammento di diario di un reduce una frase campeggia sulla pagina dell’aprile del 1945: “SIAMO LIBERI ma in quale stato”.

Immagino cosa si debba provare nel sentirsi già dei cadaveri e vedersi salvare da dei carri armati sconosciuti, e realizzare allora di essere vivi e liberi. Forse i prigionieri hanno sorriso, con i muscoli del viso ormai atrofizzati, magari avevano dimenticato come si faceva. Forse hanno pianto, piegati dalla stanchezza e dal sollievo, che cresce e arriva quasi a soffocarli da quanto è grande.

Forse sono solo rimasti immobili, cauti come cervi davanti ai fari dell’auto, temendo di ricadere nell’incubo.

O forse le loro menti erano ormai tanto stordite dalla paura e dall’orrore da spegnersi e lasciarli indifferenti all’idea che tutto fosse finito, finalmente.

 

Da San Sabba verso Budapest e Auschwitz

A Budapest c’è un lato del fiume coperto di scarpe di ferro: un monumento alle persone uccise nella notte e gettate nell’acqua. Perlasca parla delle tracce di sangue che sono rimaste nella neve la mattina dopo la loro uccisione, dei cadaveri in mezzo alle correnti ghiacciate - immagini così nitide che sembrava che le parole del suo diario le stessero proiettando nella mia mente.

Sono vari modelli: tacchi da donna, con qualche segno di eleganza, scarponi sformati con i lacci sparpagliati, stivali afflosciati, mocassini aperti, sono scarpe logorate e rovinate dall’uso. Sono ricoperti di fiori e braccialetti colorati lasciati di chi è stato lì prima di noi.

Il paio di scarpe che ha più offerte sono delle scarpette da bambino, piccole e tenere nella loro forma, simili a quegli stivaletti che si vedono ai piedi dei neonati mentre quelli scalciano e si muovono, gorgogliando allegramente. L’idea che quel bambino non sia cresciuto è il primo grande momento in cui realizzo - in mezzo al raffreddore e alle chiacchiere in pullman - che cosa sto vedendo.

Prima di venire qui, quando leggevo “Se questo è un uomo” di Primo Levi, avevo immaginato Auschwitz come un posto grigio, un limbo che non aveva nulla di reale, fatto di segni di carboncino e di pennellate grigie, qualcosa di così spettrale e terribile da sembrare impossibile.

Non è come me lo aspettavo: c’è il rosso cupo del mattone e della ghiaia, il bianco delle pareti e il verde degli alberi.

AuschwitzQuando siamo arrivati nel parcheggio, c’era il sole, un sole timido ma promettente. Nell’istante in cui siamo usciti seguendo la guida, ha iniziato a piovigginare: una pioggia fine e lieve ma fredda, una carezza gelida a ricordare che quel posto non è un museo qualunque, un invito a non perdere le parole della guida e a guardarsi attorno.

Oppure piove perché non è possibile che qui splenda il sole, come se questo posto fosse una bolla cristallizzata nell’orrore che racchiude e simboleggia.

Eppure ci sono alberi ed erba, ossimori ai miei occhi. La vita vegetale è l’unica possibile in mezzo a questo filo spinato.

Ricordo di aver cercato di trattenere la commozione almeno fino a oltre il cancello, poi sono crollata. Mi pareva che tutto attorno a me fosse irreale: le pozzanghere, la ghiaia impastata con il fango, le case.

Ogni alloggiamento contiene una sezione diversa del museo; una è dedicata alle prove del genocidio (credo sia grave la situazione se serve usare il termine “prove”).

Capelli. Ci sono i capelli. I capelli di mezzo milione di donne. I capelli.

Solo adesso riesco a ricostruire anche come fossero - ingialliti a causa del tempo ma intatti, ammucchiati e intrecciati come solo i capelli sanno fare -, ma sul momento ho iniziato a respirare male e non riuscivo a staccare gli occhi da quei ciuffi ancora integri.

C’è qualcosa di estremamente personale nei capelli, non è vero? Sono nostri, sono attaccati a noi, sono espressione di noi stessi; in una donna sono la sua essenza quasi quanto il resto del suo corpo. Vederli lì voleva dire che erano stati tagliati, e che tutte quelle donne - quante di loro avevano la mia età? Quante di loro avrei potuto essere io? - erano state private della loro identità, di loro stesse.

In un’altra stanza ci sono poi i vestiti: delle magliette e dei pantaloni che sono troppo colorati e piccoli per essere appartenuti a un adulto. Ci sono troppi oggetti di bambini in questo posto. La mia mente prende quei vestiti e li anima, dona loro un piccolo proprietario che si mette a correre e a giocare per la stanza semibuia, ridendo con aria spensierata, incurante di noi visitatori.

Enormi vetrine contengono valigie, stampelle e scarpe. Sono un’infinità di scarpe, non tanto diverse da quelle di Budapest. Ognuna di quelle calzature è una persona, e immagino quelle centinaia di uomini e donne rinchiusi dietro il vetro con i loro effetti personali, una bolgia che picchia sulla finestra  e chiede di uscire.

Ci sono anche delle pentole, sono l’unica cosa che mi strappa un vago sorriso malinconico: per me le pentole significano famiglia, significano pranzi di comunità, feste in cui si ride e si mangia, momenti sacri che hanno l’odore di cibo, che immagino una volta venisse anche da quelle pentole sbeccate nella vetrina.

Un’altra casa custodisce le fotografie dei prigionieri, e la guida spiega che, a un certo punto, avevano anche smesso di farle per accelerare il processo di entrata di nuova forza lavoro. Sono troppi quei volti sui muri, e allo stesso tempo troppo pochi: le pareti bianche dovrebbero essere coperte dalle fotografie, non dovrebbe esserci nemmeno uno spazio vuoto.

C'è una parrucchiera con i suoi bei capelli, una suora dal sorriso gentile, un'insegnante con gli occhi di ghiaccio e una donna che sembra uno scheletro. Alcune sono mosse. C’è un uomo con gli occhi cerchiati di nero; non credevo fosse possibile somigliare tanto ai dannati dei quadri.

Il magone rimane mentre proseguiamo, ma almeno non singhiozzo più. L’emozione mi ha spossata, vorrei solo rimanere immobile in mezzo a quei viali e sentire la pioggia, isolarmi un attimo da tutto e assorbire quello che sto vedendo, realizzare quello che è stato questo posto.

 

Ciò che resta attraverso la letteratura

Ripensando a quello che avevo immaginato leggendo “Se questo è un uomo”, nella mia mente si affaccia la figura di Primo Levi. In qualche modo mi conforta l’idea che una parte di lui sia qui, accanto a me, per guidarmi e accompagnarmi. Una sorta di fantasma che ho creato nel tentativo di non sprofondare di nuovo nell’emozione.

Mi fa piacere l’idea che mi accompagni, muto, senza guardarmi troppo. Non deve né può dirmi qualcosa - a malapena ricordo cosa aveva scritto, e un fantasma del genere può parlare solo attraverso le sue parole su carta -, semplicemente mi ancora alla realtà delle cose e mi ricorda che qua dentro ci sono state delle persone.

Mi ricorda anche perché sono qui: non solo per capire quale profonda sofferenza abbia vissuto un popolo capace di un umorismo così arguto e rasserenante, ma anche per comprendere le sue azioni. Perché Primo Levi ha scritto, perché ha sentito il bisogno di farlo. 

E perché non è riuscito a sopportare il peso di quello che aveva vissuto, perché abbia ceduto al dolore e alla stanchezza.

Mentre camminiamo per i viali, l’impressione è che Auschwitz sia molto più abitato di quello che sembra; la sensazione è che ci siano migliaia di occhi che ci osservano dalle finestre delle case in attesa che noi entriamo per conoscere la loro storia.

Essere legati per l’eternità a un luogo simile deve essere doloroso: il proprio nome è custodito in un libro che occupa quasi tutta una stanza, i propri vestiti sono esposti in quelle stanze, la propria fotografia è ancora lì a ricordare come si era.

Lungo il percorso, si passa poi per il corridoio sotterraneo che porta alle celle dove si moriva di fame. Questo corridoio è veramente stretto. Ogni cella è claustrofobica, e il cero lasciato da un papa non scaccia la penombra inquieta di questo luogo. Il silenzio là sotto è assordante - questa espressione è nata per posti come Auschwitz -, tanto che in mezzo ai nostri passi è facile immaginare i lamenti degli uomini stipati, infreddoliti e assetati.

L’ultima tappa qui sono gli inceneritori, ricoperti di terra e erba tanto da sembrare colline. In qualunque altro contesto sembrerebbero tane di conigli, un elemento allegro e rassicurante, ma questi hanno la porta squadrata e nera come una bocca.

Sono spazi piccoli, essenziali. I pavimenti sono ricoperti di cadaveri e noi ci camminiamo in mezzo; nuotiamo in mezzo alla morte, o almeno questa è l’impressione.

Verso Birkenau

A Birkenau è tutto diverso: è all’aria aperta,  ampio, infinito, più simile a quello che immaginavo da casa. Si stende per centinaia di metri tra erba, ghiaia e alberi. Mi viene in mente un pensiero sciocco, ovvero quanti campi da calcio avrebbero potuto esserci al posto di questo posto. Quanti bambini avrebbero corso e giocato invece che morire qui.

BirkenauIl campo è sorvolato da uccelli neri che planano e sbattono le ali senza mai andarsene, pigolano come gabbiani ma paiono corvi. Chissà chi erano prima di essere guardiani della memoria.

Con i piedi che iniziano a farci male e il freddo della pioggia che ci disturba, è facile chiedersi se saremmo stati in grado di sopravvivere al freddo polacco, e quanti invece siano morti proprio in questo fango, in queste baracche di legno che ora paiono ampie, ma che prima dovevano essere brulicanti di persone.

Da Vienna al ritorno

Di Vienna c’è poco da ricordare. C’era il sole, finalmente, anche se continuava a fare freddo. Lì i monumenti sono meno, ma ci sono. Uno in particolare è composto da una serie di libri senza titolo, simboli dei nomi e delle vite che sono andate perdute.

Nessuno di noi è lo stesso di prima. Non credo sia possibile non essere cambiati da questi posti.

Pensando alla mia vita come ad una linea del tempo, posso individuare due periodi, distinti nettamente da questo viaggio: c’è un “prima” della visita ad Auschwitz, e c’è un “dopo”.
Può essere solo così.

Sofia Andreatta